Linguaggio e strumenti per raccontare le fragilità della persona, evitando distorsioni e favorendo l’inclusione sociale, al centro dei seminari organizzati nei giorni scorsi a Villacidro e a Tempio Pausania dalla Caritas Sardegna, insieme all’Ordine dei giornalisti, all’UCSI regionale e all’Agenzia giornalistica Redattore sociale. Quest’ultima, creata nel 2001, è il motore delle iniziative promosse dalla Comunità di Capodarco di Fermo (dal 1966 una delle organizzazioni più attive nell’intervento a favore di persone in difficoltà), tra cui il seminario incentrato sui temi del disagio che, ogni anno, vede centinaia di giornalisti partecipanti. Direttore dell’Agenzia da due anni è Stefano Caredda, intervenuto durante i seminari organizzati in Sardegna.
In che contesto si inserisce oggi la comunicazione sociale?
«Negli ultimi dieci anni, in Italia, stiamo assistendo a un paradosso: mentre il giornalismo “tradizionale” – così come gli altri settori – sta vivendo una crisi economica, il mondo del non profit, della solidarietà organizzata ha avuto una forte crescita non solo dal punto di vista dei valori, perché crea coesione sociale, ma anche dal punto di vista economico, con la creazione di posti di lavoro: circa 320mila le organizzazioni del terzo settore, 850mila i posti di lavoro, 5 milioni e mezzo i volontari impegnati nelle diverse realtà (dati Istat). La stessa riforma del terzo settore (sebbene non ancora portata a compimento per la mancata stesura di alcuni decreti attuativi) impatta su una realtà in fermento, che oltre a creare valore economico crea valore sociale. Queste organizzazioni hanno una presenza radicata sul territorio e costituiscono un “patrimonio informativo” significativo».
Quanto questo “patrimonio informativo” viene esplorato dai giornalisti?
«Oggi c’è una maggiore possibilità di comunicare, perché ogni organizzazione ha un proprio sito internet, una propria pagina facebook. Rispetto al passato, alcuni di questi temi sono più presenti nella stampa generalista, ma, allo stesso tempo, alcuni fenomeni, come l’adolescenza, la solitudine, gli anziani, la malattia, restano “invisibili”, perché permangono difficoltà di comunicazione dovute anche alla mancanza di organismi di rappresentanza che fungano da tramite con il mondo dei media».
Come si inserisce Redattore sociale in questo scenario comunicativo?
«Ciò che viene messo in risalto dall’Agenzia è che all’interno di ogni notizia è possibile tener conto anche di un altro punto di vista, dando voce alle persone protagoniste dei fenomeni. Altri elementi chiave sono la conoscenza e la formazione: occorre conoscere i temi di cui si parla, avere un background che consenta una narrazione corretta, evitando di sovrastimare alcuni aspetti e trascurarne altri. In questo senso, cerchiamo di essere una luce accesa sull’informazione sociale, che parta da un approfondimento dei temi trattati e offra la possibilità di avere una maggiore consapevolezza di essi».
Quali sono gli errori più frequenti e come evitarli?
«Spesso si affronta un tema “per sentito dire”, senza rendersi conto di fare un’informazione stereotipata: basta pensare ai rom, ai disabili, agli immigrati. È importante che i giornalisti siano in contatto diretto con le realtà della solidarietà organizzata: esse sono portatrici non solo di fatti, azioni, ma anche di valori, riflessioni, e possono suggerirci il corretto inquadramento del racconto, grazie alle competenze specifiche di cui sono depositarie. Occorre partire proprio dal riconoscimento di quelle competenze indispensabili per evitare di “accontentarsi” di dare la notizia senza approfondirla, ritenendo di trovarsi davanti a temi già conosciuti perché inglobati nella società: per raccontarli occorre formarsi, riflettere, interrogarsi, e ciò è ancora più necessario proprio perché si parla non di realtà asettiche, ma che impattano sulla vita di persone fragili».
Maria Chiara Cugusi